Omelia per la Messa di Natale 2020

Permettetemi di invitarvi, fratelli e sorelle, a venire con me fin davanti al presepe e a sostare davanti ad esso. L’abbiamo fatto tante volte ma ci rendiamo conto che quest’anno è diverso.

Ecco siamo davanti alla culla-mangiatoia, fermiamoci: e ora, ditemi, come vi sentite? Ci accorgiamo che in questo Natale oltre alla fede c’è un’altra cosa che tutti ci accomuna: il senso della nostra fragilità, particolarmente vivo in ciascuno di noi.

Ci eravamo abituati a uno stile di vita pieno di sempre nuove possibilità, il progresso culturale e tecnologico ci faceva convinti della nostra autosufficienza. Il Covid ci sta riportando con i piedi per terra, sbattendoci in faccia la verità della nostra precarietà.

Se su questo siamo tutti d’accordo andiamo avanti: adesso vi invito a concentrarvi sul Bambino. Guardatelo. Com’è? Fragile.  È Dio fatto Bambino. Ma anch’Egli fragile. Ci fa effetto vedere un Dio fragile come noi. Chi può far del male a Dio? Nessuno. Chi può far del male a un Bambino? Chiunque. Ecco, Dio nel farsi Bambino non ha voluto privilegi. È sceso dalle stelle, come recita il canto, venendo da un altrove, dove era forte e al sicuro, ma passando di qua si è adattato al mondo così come lo ha trovato, lo stesso mondo in cui viviamo noi precari. Un mondo bellissimo ma dove sovente può capitare a chiunque di trovarsi nel bisogno. Ecco, anche questo Santo Bambino che voi vedete è bisognoso.

Guardatelo bene: stanotte più che mai possiamo conoscere meglio questo Bambino. In nessun altro modo, infatti, comprendiamo così bene la fragilità come quando noi stessi la sperimentiamo.

Aveva bisogno il Bambino, dopo aver viaggiato per circa due settimane da Nazaret per arrivare a Betlemme, di un albergo, ma non c’era. Aveva bisogno di una culla, ma non c’era. Aveva bisogno di un focolare che lo potesse difendere un po’ dal freddo, ma non c’era. Gli sarebbe stata molto utile la camerina con tutto l’occorrente preparato dalla sua mamma e da Giuseppe per la sua nascita ma la camerina, con le coperte, i pannolini e i golfini, era rimasta a Nazaret.

Questo Bambino sa cosa significa trovarsi nel bisogno. Allora ci suona strano, di primo acchito, il nome con cui lo ha chiamato l’angelo: “Salvatore” (vi è nato un salvatore). Un Salvatore dovrebbe essere forte non fragile. Invece questo Salvatore deve per prima cosa lui stesso essere salvato, grazie a Giuseppe che lo porta in Egitto lontano dagli assassini che lo volevano morto. Anche per il resto della sua vita questo nostro Salvatore ha continuato a trovarsi nel bisogno. Per esempio umanamente avrebbe avuto bisogno di qualcuno che gli facesse un po’ compagnia nella tremenda sera del Getzemani, ma i tre amici a cui l’aveva chiesto dormivano. Avrebbe avuto bisogno che i suoi fidati discepoli si fossero schierati a difenderlo, quando giunsero le guardie per arrestarlo, e che qualche voce diversa dal coro generale si fosse levata quando la folla gridava “non Costui ma Barabba vogliamo sia liberato”; avrebbe avuto bisogno che qualcuno dei suoi amici si fosse offerto spontaneamente per aiutarlo a portare la pesante croce anziché quel Cireneo obbligato con la forza dai soldati.

Davanti al Presepe, ripercorrendo quella che sarà l’intera esistenza del Bambino, ci domandiamo: perché il nostro Salvatore è così bisognoso? Anche noi siamo bisognosi, fragili.

Qui ci viene in aiuto l’altro nome con cui il Bambino viene chiamato in questa speciale notte: Emmanuele, “Dio con noi”. Ci spiega che Lui, di per sé, non sarebbe fragile ma siccome ha voluto essere una sola cosa con noi, la nostra fragilità è diventata anche sua. Questo vuol dire essere l’Emmanuele, il Dio con noi. Egli è dunque l’Emmanuele con chi è solo e sfiduciato, è l’Emmanuele con chi non ha potuto dare l’ultimo abbraccio a chi è morto del virus, è l’Emmanuele per chi vede avanzare la povertà economica, è l’Emmanuele per chi vive la malattia lontano dai propri cari, è l’Emmanuele per chi mette tutto il proprio impegno nel soccorrere gli altri, il personale sanitario e farmacistico, i volontari, gli insegnanti, le forze dell’ordine.

L’Emmanuele ha fatto propri tutti i nostri limiti fino all’estremo limite dell’uomo, il più grande e per noi insuperabile: la morte. Anch’essa ha condiviso con noi l’Emmanuele, non vi si è sottratto anzi, vi è sprofondato dentro. È morto è stato sepolto, la pietra ha chiuso il sepolcro dove è stato deposto. Maria, sua e nostra Madre, dovrà ripetere il gesto di questa notte, deponendolo nel sepolcro con tutta la tenerezza e la delicatezza che le appartengono come stanotte lo ha deposto nella mangiatoia. E ha detto: ecco ora è davvero il vostro Emmanuele, cari figli, con voi in tutto anche nella sofferenza e nella morte.

Tutto Gesù ha assunto di noi, per tutto redimere. Tutto ha assunto per tutto redimere!  La luce della resurrezione che illuminò il sepolcro la domenica mattina è la stessa luce che illumina questa notte di Natale ed è la stessa luce che illumina la notte del Covid in cui siamo immersi: il Signore è Risorto perché noi risorgiamo con Lui, la sua Vita non può essere vinta dalla morte e ce ne ha fatto dono. Di più: Gesù ha trasformato la morte, limite ultimo e definitivo, in porta di ingresso alla Vita immortale, eterna, beata, che ci è stata donata.

Ecco: siamo venuti davanti al Presepe fragili, ce ne torniamo forti, forti dei due nomi di questo Bambino sulle nostre labbra: Salvatore ed Emmanuele, Vita e Speranza nostra. Essi ci permettono di accettare il presente che ci è dato di vivere con pazienza, partecipando alle sofferenze di Cristo per partecipare anche alla sua gloria, perché tutto serve alla nostra salvezza. Egli è sempre con noi, non ci abbandona e nasce e rinasce là dove ci si vuol bene.

Maranathà!  Vieni, Signore Gesù, Luce che vince le tenebre.

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